La prima settimana di ferie, si sa, non è la più riposante; ci si deve sistemare, esplorare i dintorni, adattare alla nuova situazione. E’ la seconda settimana che vede arrivare, quando arriva, il relax, l’abbandono all’ozio (figli permettendo) e, soprattutto, libera la mente dalle incombenze quotidiane, dal lavoro, dalle preoccupazioni. Ma liberare significa anche fare spazio ad altro, a tutto ciò che hai seppellito nel cassetto del “ci-penserò-poi-che-ora-non-ho-tempo”, ciò che ha sedimentato e che ora riaffiora autonomamente, senza nemmeno dover fare scavi archeo-psicologici. Il mio “altro”, più che riaffiorare, ha eruttato, come un geyser, sogni nefasti e luttuosi che mi tormentano anche ora che dalle ferie sono rientrata da tre settimane; una valigia troppo piena che si riapre in un colpo, sbalzando tutto il suo contenuto. Sebbene sia bizzarro che la lettura di Anna Karenina mi faccia contestualizzare tutti i miei incubi nella società aristocratica russa, sempre incubi rimangono e, fino a ieri, non ne trovavo il significato. Poi ho comprato un libro per la mia bambina, per esorcizzare la sua paura del terremoto che ancora riaffiora in domande o giochi: Cosa c’è sotto? Il terremoto a casa mia di Antonella Battilani. Edizioni Artestampa, 2012.
Stando attenta alle sue reazioni inizio, prudentemente, a leggere alla mia piccola le pagine del libro e mentre leggo il mio geyser interiore inizia a spingere verso l’alto le stratificazioni emotive di questi mesi, alla ricerca di una via di sfogo. Naturalmente, da adulta razionale ho creduto di poter controllare l’esondazione che invece ha rotto gli argini sulle rime finali, sgorgando in lacrime liberatorie che la mia piccola cinquenne ha dovuto consolare con calde carezze amorevoli. Poi vai a spiegarle come mai la sua mamma si è liquefatta sulle pagine di un libro.
Se non abbiamo subito danni che condizionano la nostra vita, tendiamo ad archiviare questi eventi catastrofici, sebbene ci tocchino da vicino, eppure hanno scosso le profondità non solo della nostra terra, ma delle nostre coscienze e prima o poi dobbiamo farci i conti. Sull’ultimo numero di E-il mensile di Emergency (e intendo, purtroppo, proprio l’ultimo numero), leggevo interviste ad aquilani che dopo tre anni ancora ci stanno facendo i conti, con il terremoto; non solo conti materiali ma anche emotivi.
Tornare a casa e trovare i Vigili del fuoco che mettono in sicurezza il castello del paese, alcune case transennate, la tenda della Protezione Civile e qualche irriducibile che ancora, la tenda, ce l’ha piantata in giardino perché “non si sa mai”, non aiuta a restituire una dimensione di normalità. Non so pensare a come sarebbe la mia vita se vivessi in quei paesi, a 20 km di distanza, sprofondati tra le macerie, che pure riaprono attività, negozi, bar. Ognuno trova proprie modalità, esorcizza come può, anche scrivendo un post “fuori dal binario” su un blog per pendolari.
É proprio bello questo post. L’avevo già letto ma ogni tanto ci penso e mi piace ritornarci.
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Grazie, forse ci leggi qualcosa di tuo.
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Ci vuole intelligenza a capire cosa davvero ci fa soffrire, ma a volte un po’ di fortuna aiuta. Imbattersi in questo libro ha certamente messo a fuoco l’immagine appannata che non si lasciava guardare. 🙂
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Quante volte un libro mi ha aperto gli occhi…
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