Nessuno era bravo come noi. Facevamo i migliori carri carnevaleschi della città. La nostra abilità di fabbri ferrai ci facilitava il compito, ma a spronarci era il desiderio di rivalsa, di illusorio e fugace riscatto dalla nostra condizione di abitanti del Quartirazz (il quartieraccio). Così, con poca indulgenza, i modenesi prendevano atto delle condizioni del nostro caseggiato affibbiandogli quel soprannome, ma nella topografia cittadina era semplicemente il Pallamaglio, come la piazza in cui sorgeva.
La maggior parte di noi aveva la bottega a piano terra dove, tra la costruzione di un letto di ferro battuto e l’altro, si progettavano e preparavano i carri allegorici. Ai piani superiori ci abitavamo con le famiglie, in questa enorme, eccezionale casa di ringhiera, l’unica in città. E che festa il giorno della sfilata! Quei lunghi ballatoi si improvvisavano loggioni e palchi, incorniciati da colonne ed archi, dai quali ci affacciavamo tutti ad ammirare e salutare i nostri carri. Applausi, urla e incitazioni, esclamazioni di stupore e meraviglia. Schiamazzi non diversi da quelli quotidiani, a dire il vero, quando le madri chiamavano i figli, le mogli i mariti, le rézdore* si parlavano, urlando, dai balconi dei diversi piani. E la confusione era così eccezionale che ancora oggi i modenesi per indicare una gran baraonda dicono: “l’è un pallamaj!” Eravamo gran lavoratori, ma gente alla buona, che certo non aveva i modi raffinati dei Signori, ma la voglia di svagarsi quella sì che, se loro anticamente in questa piazza ci giocavano al pallamaglio, noi ci fondammo la società carnevalesca Castellana. Che anni quelli! Ma tutto, dicono, ha una fine e io me ne andai nel ’29, lo stesso anno in cui tutto cambiò. No, che pensate, mica morii, almeno non allora. Semplicemente qui ristrutturarono tutto, tolsero le ringhiere, chiusero le arcate e io non ci volli più stare, perché sarà stato anche un quartieraccio, ma come il Pallamaglio non ce n’era a Modena.
*Rézdora: donna che, nelle famiglie patriarcali, soprattutto contadine, si occupava della casa, intesa all’interno delle mura domestiche.
Fotografia di Filippo Maria Fabbri
Cartaresistente ha chiuso a gennaio 2018 e tutti i contenuti sono stati eliminati. Una perdita per molti visto la qualità degli scritti e delle immagini e le collaborazioni più o meno illustri che avevano fatto di Cartaresistene un punto di aggregazione per molti blogger. Ringrazio Nando e Davide per avermi accolta tra i loro autori e ripropongo qui i miei scritti perché conservarne memoria.
Bello conoscere parole dialettali e luoghi con tutte le sue tradizioni.
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Sì. Conoscere il luogo in cui si vive, quello in cui si hanno le proprie radici (non sempre i due coincidono) è importante
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Il termine rezdora l’ho sentito riferito alle donne che fanno la pasta fatta in casa… è corretto? Buon week end!
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È la donna della famiglia (e parliamo delle famiglie patriarcali) che non va in campagna, ma rimane a casa ad occuparsene, quindi fa anche da mangiare, sì
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davvero era l’unica casa di ringhiera di modena?!?
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Si, davvero. L’altra settimana a Torino ho avuto modo di constatate che le case di ringhiera non sono per nulla l’eccezione e so che nemmeno a Milano è così, ma a Modena sì. Ce n’è un’altra a fianco a questa, ma ha le ringhiere che affacciano sul cortile interno
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toccante questo amarcord così realistico nella sua finzione.
brava
ml
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Grazie Massimo
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