Cowboy da stazione

Fossi capace di scrivere una ballata, la dedicherei al cowboy da stazione, non figura astratta, ma individuo mite che s’aggira tra i binari delle tratte provinciali. Non è tanto il cappello ad interessare, ma l’aria dimessa, il fare solitario, quel mesto gilè beige senza stella da sceriffo. Non è John Weyne, questo è certo. Niente stivali, niente speroni che i mocassini sono più adatti alla banchina e comunque non ha un cavallo da incitare che quello di ferro cammina da solo. La sacca da viaggio però se la porta: non è di cuoio, non ha frange bizzarre, è un semplice zaino di tela nera. Lo molla incurante sulla panchina che non ha niente della prateria, nemmeno il colore, ma per un bivacco sembra bastare: non mangia fagioli, né carne secca, ma hamburger e bibita da fast food. Poi, educato, richiude il sacchetto, lo piega con gesto abitudinario, si desta, lo guarda sorpreso e lo accartoccia. Niente avanzi per i coyote, ma un centro perfetto nella pattumiera. Lì sta per un po’, vicino ad un palo. Aspetta.
Il treno che arriva lo porta lontano.