Maria Perosino [1961-2014] era storica d’arte, giornalista e curatrice di mostre e il suo lavoro la portava a viaggiare molto, sia in Italia che all’estero. Dai suoi spostamenti e soggiorni in solitaria è nato il suo primo libro che è sì un manuale di viaggio, ma anche un ironico e intelligente modo di affrontare gli altri e se stesse. Intendiamoci, nessuna psicologia spicciola, anzi, tanta concretezza e buon umore, senza scivolare nell’insegnamento di vita stile “lo zen e l’arte di… ”
Ovviamente non manca il capitolo sui viaggi in treno e vorrei riproporlo tutto, ma per ragioni di spazio e copyright, non mi è possibile, così per ovviare al primo problema, pubblicherò il post in due parti: la prima riguarda le stazioni, la seconda il viaggio in treno.
Maria Perosino. Io viaggio da sola. Einaudi, 2012.
Ma prima e dopo essere treno, il treno è stazione. È da lì che si parte, è da qui che comincio.
A mezza strada tra le case e la piazza, la stazione chiede di essere abitata e attreversata e passeggiata. Lei lo chiede e in genere la gente lo fa. Ognuno a modo suo, prendendosi una vacanza dalla quotidianità ma non per questo restando con le mani in mano. Mentre occupano lo spazio e riempiono il tempo, gli inquilini delle stazioni creano riti e ebitudini, avviano delle relazioni, interpretano dei ruoli. Le persone mangiano, bevono, leggono, fumano, parlano. Insomma, sembrano fare le cose che fanno di solito, ma in realtà è altro quello che stanno facendo, stanno inventandosi una biografia. Vivono vite parallele che si organizzano imitando i meccanismi di quanto succede appena fuori da lí, dentro le piccole città e i paesi che le contengono.
Se la stazione non è grande, sarà come la piazza di una cittadina di provincia. Gli uomini più anziani li trovate seduti ai tavolini del bar, di solito a gruppi di tre o quattro, sul tavolo amari o caffè corretto. Parlano poco e ad alta voce. Gli adolescenti, a gruppi, sul primo binario, sigaretta in bocca e coca-cola in mano, ogni tanto due ragazze si allontanao appena dagli altri, auricolari che passano di mano in mano, i maschi un po’ sbruffoni, le femmine impegnate a esibire una malizia ancora goffa, tutti che cercano di capire come riconoscersi e farsi riconoscere. Parlano tanto e ad alta voce. Le donne di mezza età si muovono in coppia, anche loro vanno al bar, ma non si siedono, stanno al banco. Parlano fitto e a bassa voce. Se ne sta solo invece il manager, che cammina avanti e indietro e che in realtà manager non è, ma un impiegato di banca in doppiopetto, con telefonino in mano e valigetta in similpelle nell’altra. Parla tanto e parla forte, al telefono, e sembra parli da solo, E forse è così.
Se invece la stazione è quella di una grande città, è come essere nel centro di una grande città. Gli adolescenti, a gruppi, da McDonald’s, gli anziani ai tavoli dell’unico bar sopravvissuto alla ristrutturazione, piccioni sui marciapiedi, giovani donne, a due a due, ai tavoli di Acafé a sorseggiare un cappuccino, manager, veri e finti, nel Freccia Club… Parlano come le loro controfigure di provincia, solo non ve ne accorgete, perchè tra treni che partono e treni che arrivano c’è smpre un gran baccano.
Insomma, tutto da copione. Però con una differenza di sostanza: pensiri, preoccupazioni, desideri, interlocutori, sono diversi da quelli celle vite che si sono lasciate a casa, da cui si sta andando via o verso cui si sta tornando.
E con un’altra differenza, che s’incolla alle pareti di questa città che non è città. I viaggiatori, tutti i viaggiatori, depositano nelle stazioni il viaggio che stanno per fare o da cui sono appena tornati e ne lasciano lì un pezzettino, che s’impila su quelli lasciati da chi è venuto prima.
Le stazioni in fondo sono ripostigli in cui si accatastano i viaggi.
E le stazioni in fondo sono storie, le storie sono la loro archeologia. Storie di nomadi atempo determinato, ognuno con il suo qui e ora, con la sua second life portatile da mettere in scena in quell’attesa che si ripete ogni giorno ma si ostina a rivendicare il suo essere estranea alla quotidinaità.
[Cap. Treni, pp.83-86 ]
Di questo libro avevo letto qualche recensione e mi ispira, proprio per la vena ironica, molto piacevole il brano che hai scelto.
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Non è solo l’ironia, ma l’intelligenza di chi scrive che rende piacevole la lettura. Grazie Miss
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Mi piace ! prendo nota.
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Domani la prossina puntata
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Quel che ho letto mi è piaciuto…attendo il seguito 🙂
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A domani allora
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Concordo, l’ho letto e recensito questa estate (attirata dalla vis viaggiante) e non me ne sono pentita. (Meno bello il secondo, invece).
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Non mi attira il secondo del secondo. Non credo che lo leggerò
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L’ho adoraro, letto in treno, divorato. Al punto tale da volerle scrivere appena finito. Non sapevo che. E ci son rimasta secca.
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Aveva 52 anni. Anche io ero intenzionata a seguirla quando l’ho scoperto
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Io sto finendo “le scelte che non hai fatto”, migliore l’intenzione che la resa, ma magari riprovo col primo. E comunque sì, rocersale, che tristezza.
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